Abstract

I versi finali della Nemea VII di Pindaro (Nem. vii 102-5) sono stati spesso interpretati come un rimando allusivo al Peana VI, e dunque come prova testuale della cosiddetta “teoria dell’apologia”. Al di la del nesso intertestuale fra i due carmi, essi risultano comprensibili all’interno della logica del carme, alla luce della polemica di Pindaro con le menzogne della tradizione culturale pregressa (Omero per la presunta virtu di Odisseo, la vulgata panellenica in senso lato per la presunta empieta di Neottolemo) su cui si impernia la sezione mitica dell’ode: il poeta dichiara di non aver «oltraggiato Neottolemo con parole immutabili» (ἀτρόποισι Νeοπτόλeμον ἑλκύσαι ἔπeσι) in contrasto con i racconti ripetitivi e menzogneri della tradizione. In quest’ottica propongo una lettura possibilmente originale dell’espressione μαψυλάκας Διὸς Κόρινθος («colui che abbaia l’antifona “Corinto di Zeus”»), non solo come esempio di monotona ripetitivita, ma anche e soprattutto di alterazione della verita, nella misura in cui innescherebbe per contrasto un implicito richiamo allusivo, verosimilmente intuibile per gli Egineti di etnia dorica, all’autorita dell’epos corinzio e “dorico” in senso lato di Eumelo di Corinto.

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