Abstract
Between ca. 1885 and 1927, Gabriele d’Annunzio and Matilde Serao became friends and contributed to journals in Rome and Naples; they met authors in Europe (especially in France), exchanged opinions about their works and also about their private life. She has been a vibrant constant on Vate’s experience: she gave him advices and protected his affair with Eleonora Duse, who was also Matilde’s friend. Serao’s collection of letters, kept by Fondazione Il Vittoriale degli Italiani in Gardone Riviera, explains some contours of a crucial friendship.
Highlights
Alessandra Trevisan «Vogliatemi bene»: lettere di Matilde Serao a Gabriele d’Annunzio go quotidiano e personale, non privo di elementi d’interesse, che intrecciano biografia e opera
She has been a vibrant constant on Vate's experience
Et situer à la place qui est, qui restera la sienne, ce D’Annunzio, malgré tout, magnifique
Summary
La favilla La resurrezione del centauro, datata 1907, nasce come commento alla scultura di bronzo di Clemente Origo, intitolata La morte del cervo, presentata alla VII Esposizione internazionale di Venezia. L’opera è dedicata all’omonima lirica dannunziana di Alcyone. Il mito eclissato non è estinto: può rivivere come forma possibile nell’opera del poeta, nel ‘pensare poetante’ (dichtendes Denken) che va in cerca delle tracce degli dèi. Nella parola immaginale si realizza la rinascita del Sacro, si dà forma alla dimora degli dèi, accogliendo il senso del linguaggio originario che per Heidegger è un ritorno al «gioco di pensiero [...] più vincolante del rigore della scienza» (Heidegger 1973, 1: 104-5): Allora il testimone di tanto spettacolo cercò di foggiare un suo poema in una massa di materia ritmica, giusta la simiglianza dei due esseri vivi; e operando riconobbe l’identità della sua arte poetica. Come dirà poco più avanti, il creatore sottrae l’esistenza all’errore del tempo: Ero al colmo della vita [...] Rimemorare non è per me aver vissuto né rivivere; ma è vivere nel vivere. Questo rapporto stretto con il Sacro viene interpretato da Hillman nel segno dell’ineluttabilità: «non possiamo toccare il mito senza che ci tocchi a sua volta» (Hillman 1977, 30)
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