Abstract

Nell'ultimo decennio, si è verificato un importante cambiamento della situazione culturale e socio-economica delle famiglie che assistono i bambini che necessitano di dialisi (aumento del numero delle famiglie monoparentali o con genitori separati e delle famiglie di immigrati e incremento della povertà e, quindi, della necessità di lavoro per entrambi i genitori). Vi è stato, inoltre, un aumento dei pazienti con comorbidità severe correlate a prematurità o a sindromi genetiche, ora avviati alla dialisi, contrariamente a quanto si faceva in passato. Si è palesato con maggiore chiarezza il rischio di peritonite sclerosante con un'importante quota di decessi, in parte, ma non completamente, correlata al numero di peritoniti e alla durata della dialisi peritoneale. Nello stesso tempo, si è assistito a un sostanziale miglioramento delle tecniche dialitiche, peraltro maggiormente evidente per le metodiche extracorporee. Per tutti questi motivi, l'assioma degli anni '90 “bambino in dialisi = bambino in dialisi peritoneale” non è più da considerarsi del tutto valido. La scelta della metodica più consona al singolo paziente e alla sua famiglia dipende, quindi, dal lavoro di valutazione di un team multidisciplinare, che consideri attentamente sia gli aspetti clinici del bambino con insufficienza renale cronica terminale sia i fattori psico-sociali ed economici relativi ai vari tipi di trattamento, nello specifico di una determinata famiglia. Solo in questo modo si possono prevenire gli insuccessi terapeutici (dropouts), spesso riportati per alcune categorie di bambini in dialisi peritoneale. La conseguenza di quanto detto, dal punto di vista epidemiologico, è stata, in questi ultimi anni, nel nostro centro, la ridistribuzione della prima scelta di trattamento a favore dell'emodialisi.

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