Abstract

Dolore, sofferenza e limite si impongono come accadimenti. Questo era il primo senso del pathos: qualcosa che accade. Rispetto al riconoscimento della precarieta, della necessita del patire e dell’inevitabile confronto con il limite, sembra lacerarsi ogni tipo di linguaggio, sembra infrangersi ogni tipo di spiegazione. Argomentare il dolore e esperienza fallimentare. Dire il dolore o cercare di consolarlo pone la parola di fronte alla sua manchevolezza o di fronte al suo eccesso. La vanita del logos sembra allontanare dall’esperienza. Eppure e dalla parola che ci si aspetta lenimento, salvezza. Perche se un dolore diventa dicibile, allora lo si puo, in qualche modo, sostenere. Se ci sono le parole per dirlo, non solo il dolore esiste, ma il soggetto acquista o si accorge di possedere gli strumenti per maneggiare la sofferenza. Addirittura puo accadere che le parole del dolore, se troppo ripetute o diventate abituali, perdano la loro prossimita con l’agonia che le ha originate, con l’esperienza su cui si sono posate o da cui nascono. La relazione tra parola e dolore diviene cruciale per una filosofia dell’educazione che tenti di sporgersi sul legame tra apprendimento e sofferenza, tra pathos e mathos. Il linguaggio insegna un’ “etica del finito del senso” che permette di costruire e ricostruire sempre, e di volta in volta, un territorio che sappia tenere insieme esperienze inconciliabili. E attraverso il linguaggio e la possibilita di un suo ricominciamento (che la filosofa Maria Zambrano definisce esperienza del des-nacer, del disnascere) che diviene possibile sperimentare la parola e l’esperienza del dialogo, della relazione all’interno di una dimensione di apprendimento. Il linguaggio puo diventare la dimora dell’essere, secondo l’idea di Heidegger, se impariamo che e dai suoi conflitti, dal suo ricominciamento inesausto che si rivela come la parola ci permetta di stare al mondo, di abitarne lo spazio di possibilita, l’apertura discorsiva.

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